R-Evolution: una sostenibile urgenza dell’essere

Il-borgo-abbandonato-di-Valle-Pezzata

Ci sono poche cose che destano la mia attenzione quando, in uno di quei pomeriggi frenati dalle piogge d’acqua o di foglie, rimango per ore alla mia scrivania di fronte a orde di storie extra-ordinarie vaganti per il web. Un cyberspazio colmo eppure infelice, una finestra sul mondo infinita e angosciata dalla quale gli spari di luce non fanno rumore, per lo più sono fiochi e disattesi. La storia di Marco è una di quelle frecce luminose che ha ridato respiro alle mie ore da scrittoio, che ha soffiato sulla mia tisana d’autunno un’aria fresca e autentica.

E avevo voglia di ingoiare verità.

E’ una storia che mi ha suggerito autenticità  dall’inizio, a partire dal titolo di quell’articolo che la raccontava, netto, esplicito, senza equivoci:

“Sceglie di fare l’eremita in Abruzzo l’ex manager laureato in Bocconi”.

Come la scelta di Marco, il senso di tutto ciò che va detto è espresso li, sembra già dire abbastanza, è tutto contratto in una frase, senza fronzoli né complicazioni, perché non ce n’era altra possibilità.

E’ una storia che mi ha condotto ad altre storie, a centinaia di volti e di individui, di piedi e di scarpe allacciate al cuore, all’anima, partite alla ricerca di un una nuova vita, del cambiamento, del gesto, del luogo che raddrizzi il senso di un’esistenza. La propria.

Marco è:

  • una caduta di rasta sopra un sorriso sereno,
  • è un viaggio  dentro se stesso,
  • 37 anni,
  • una brillante carriera da studente alla bocconi di Milano coronata da una laurea in economia con il massimo dei voti.
  • è un manager della Yamaha, noto marchio Giapponese colosso mondiale dell’economia.

Dal 2011 Marco vive nei boschi dell’Abruzzo, al confine con le Marche, sulle irte montagne della  provincia di Teramo. Senza luce elettrica, senza consumi di alcun tipo, senza tecnologia. Dorme, mangia e respira seguendo i cicli del sole, della natura.

“Un giorno di Gennaio alloggiavo per lavoro all’Holiday Inn nel cuore di Manhattan, dopo sei mesi, nel fienile di un casolare toscano” dice in un’intervista al giornalista del Corriere delle Sera.

Nessuno comprende la sua scelta ma poco conta, perché tra i pareri ammirati dei lettori sconosciuti e l’incredulità dei suoi genitori, due benestanti del Varesotto, Marco si dimena senza troppa difficoltà, con una sola consapevolezza sufficiente a se stessa: vivere con ciò che è davvero necessario, senza nulla di più.

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Dopo aver trascorso otto anni nel villaggio della Valle degli Elfi, sull’Appennino Tosco-Emiliano, raggiunge l’Abruzzo e tenta di dar vita anche qui ad una piccola società eco-sostenibile. Partono in quindici, oggi sono in due a tenersi compagnia, insieme a Marco, un’altra strada, un altro paio di passi viaggiatori, quelli di Artur, polacco di 41 anni che come Marco ha scelto la natura.

Non nasce tutto dal nulla, una scelta così lontana dallo stile di vita di un manager  ha delle radici, deve ricondurre ad una matrice. Marco aveva già anticipato l’importanza di tutto questo poco tempo prima. In quella lista delle cose buone e giuste che ad un certo punto della vita ci si ritrova a stilare – quella che si distanzia inevitabilmente dall’altra lista, delle cose ingiuste e sbagliate – Marco, ancora studente, ha già inserito l’attenzione per l’ambiente e lo sviluppo sostenibile, dedicandogli la sua ricerca di tesi.  “Volevo confutare- dice al giornalista- la tesi di coloro che, finanziati dalle multinazionali, cercano di far passare per scienza le convinzioni politiche”.

Una grande sfida quindi, che sembra necessitare di un passaggio obbligatorio attraverso e dentro tutto quello che, poi, si può decidere di lasciare. In una vita sommersa da agi, da comodità, da sicurezza economica e prestigio professionale, c’è chi di questo non riesce a farne la sola ragione, chi non si soddisfa di trovarne il senso più importante. Perché Marco non è solo, assolutamente no. E’ un caso italiano che sulle pagine dei giornali di oggi ha colorato l’idea di qualche penna curiosa in cerca di scoop ( sintomatico indizio del fatto che molto probabilmente, la storia sarà dimenticata quanto prima), ma di queste storie ce ne sono a decine, nel nostro paese e nel resto del mondo. Quello che ci fa venire voglia di raccontarle, non è la stravaganza della singola esperienza in se, quanto invece, il senso comune che allaccia così tante vite intorno ad un solo modo di vedere il mondo. Oltre il sapore esotico di questi bei viaggi alla ricerca del se, si alza come un vento di insoddisfazione permanente che attanaglia le esistenze di molti di noi e lo fa…nonostante tutto. Infatti, i casi più emblematici di scelte così radicali come quella di Marco, sono quasi sempre interpretati da giovani managers della grande industria, ricchi imprenditori che hanno fatto del danaro l’unica divinità degna di adorazione, benestanti di mezza età stanchi dell’ozio incondizionato e ancora, medici, professionisti, laureati che raggiunta una stabilità professionale o economica mandano in frantumi il grande sogno occidentale.

Insomma ci si chiede se una importante fetta del globo oggi ( e riserverei l’esclusiva a quella parte della popolazione terrestre per la quale la rinuncia del troppo resta una scelta e non una condizione inevitabile) non sia in verità alla ricerca di qualcosa di diverso dal  mito del danaro o del prestigio professionale. Forse insomma, “Capitalismo non docet”!

Il web gronda di siti dedicati alla rivoluzione del lifestyle , di forum e blogs che forniscono agli insoddisfatti della parabola capitalistica il kit da viaggio per una partenza repentina e totale. Il popolo degli oppressi del sistema è folto,  rinvigorito proprio da coloro che lo hanno alimentato per un certo tempo più di altri. La voglia di evasione dalle leggi umane rappresenta il paradosso meno dissonante delle ultime grida contemporanee. L’uomo crea e mentre “distrugge” sente la necessità di rinascere e qui, il ricongiungimento con una natura dimenticata che ha bisogno di noi diventa indispensabile al punto da essere totalizzante. La rinuncia a corrente elettrica e comodità quotidiane non è il solo modus di rivoluzionare la nostra presenza sulla terra, a volte a necessitare d‘essere colmato è semplicemente un bisogno di armonia con il resto del pianeta, un modo di dare senso e coerenza al nostro ruolo, a ciò che vogliamo essere e di farlo attraverso un luogo. C’è chi questo lo ha tentato con caparbia dall’interno delle grandi metropoli dal cuore affilato e piragna, altri che hanno impacchettato 20 anni di dirigenza aziendale dentro una confezione di riso da distribuire in un villaggio del Congo o chi ha rinunciato agli ingenti guadagni  delle valli dell’America tecnologica  per coltivare in una regione del Paraguay piante medicinali destinate alle cure della popolazione. I siti internet strabordano di suggerimenti, storie e testimonianze di centinaia di persone che dai palazzi del potere della Grande Mela sono volati nelle terre del sud Africa o nelle secche isole del Mediterraneo a vivere esistenze a impatto zero, a coltivare piccoli recinti di sussistenza e alberi delle prime necessità, a crescere figli con l’aiuto del sole.

Lo scandalo?

Sta nel coraggio, dicono. E il coraggio in effetti, oggi è cosa che può dar scandalo.

Forse però queste imprese non sarebbero viste in modo poi così epico se le misure usate per circoscriverle fossero prese partendo da altre posizioni, come quelle su cui gravitano tutti quegli uomini che sul loro microcosmo di pianeta vivono da secoli nell’essenzialità. Forse, se i poli prospettici si ribaltassero, se si pensasse che questo è possibile solo perché una grande parte di mondo lo fa già, sarebbe meno scandaloso.

Lo scandalo sta quindi nella capacità di vedere le cose da un solo lato e poi anche in quella di sapere superare la visione dominante, quella di una potente parte del pianeta che oscura l’altra metà e che crede che questa….sia appunto una “cosa dell’altro mondo”!

Il coraggio sta dunque nella capacità di averlo fatto nonostante TUTTO, nonostante si avessero tutte le carte in regola per correre l’umanissimo rischio di non accorgersene.

Il coraggio di Marco è la sua coscienza che gli ha fatto ribaltare la prospettiva fino al punto di sentirsi infelice in un mondo ricco e superfluo. E’ insomma un’abilità, una dote di pochi, un dono da eletti.

Perché il coraggio si sa, non è di tutti.

La mia tazza di tisana si è freddata e il pensiero va a tutti i volti che ho incontrato negli anni e che sono invecchiati di rughe e stanchezza per inseguire il sogno della stabilità materiale. Mi vengono in mente le vite sfiancate dei traditi dalla società, degli illusi, degli ossessivi del danaro, dei collezionisti del prestigio e delle sicurezze sociali. Mi vengono in mente i vestiti grigi confusi come trottole per le vie delle città e la corsa di quelli che dimenticano il senso… dell’inizio di quella corsa.

Diventando altri da noi. Da loro stessi.

Per questo, in mezzo ai missili folgoranti del cyberspazio che mi regala un pomeriggio di bombardamenti malinconici e disgustati,  Marco è la mia freccia di luce buona che riapre il senso così meravigliosamente relativo della tristezza, della povertà e persino della vita.

Valentina Siligato
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Fonte: Il Corriere della Sera.